Quando vedo una giovane ragazza colle mani fini e bellissime che mi scappa dal portone della metro non credo che ne sono attratto sessualmente. Credo che sia che mi è negato di guardare, palpare collo sguardo in tutta calma, la sua bellezza, che mi fa soffrire.
Ce n’era prima come una sorta di momento preparatorio. Bastava osservare il suo gesto: due gambe abbastanza lunghe, esili, data la sua statura non troppo alta, raggiuntesi cautamente fin nel punto delle ginocchia (giacché davano la sensazione di essere quei due rami più di un tutt’uno); due archi che si costruivano in maniera simmetrica sotto i lati inferiori e interni, affiancati, dei piedi di un’altrettanta lunghezza per una lieve contrazione di muscoli all’insù, e solo leggermente dischiusi appena al di sotto delle loro caviglie (che, effettivamente, sinché si toccavano, non permettevano ai piedi l’affiancarsi del tutto*): poiché questa timidezza mi faceva già cenno alla seguente «apparizione» delle sue mani splendenti d’una bellezza incomparabile – tali erano la lunghezza e sottilezza delle dita! –; e, d’altronde, come non avrebbero dovuti essere quei parti, che una dopo l’altra si offrivano alla mia vista, altro che dei segni premonitori per quel mi che stava per avvenire di in un solo tempo prodigioso e doloroso? In un breve attimo avrei intravisto un qualcosa scintillare, ma che non avrei potuto afferrare – se non forse più tardi, rivista vagamente quel mistero dalla memoria, si sfogasse in una linea o in una parte di una lettera.
Sono convinto che ci sia un nesso forte tra un certo tipo di gesti (come pure la timidezza colla quale affiancava la mano al suo collo prima di andarsene) e la conformazione stessa [la ‘Beschaffenheit’] delle membra di un corpo (in quel caso la sottilezza delle dita). Come se la persona che le portasse fosse tenuta a, o non a, metterle in mostra. Una specie di responsabilità verso la bellezza stessa cui forse anche quella ragazza intuiva di esserne uno strumento.
[*e dimodoché il contatto che i suoi piedi mantenessero col suolo, col «fango del mondo» restasse del minimo possibile senza l’aiuto d’alcun mezzo intermediario come lo sono le scarpe -> eventualmente citare da «L’inconscio ottico»]Non è una questione di capacità o non-capacità, diciamo fisiognomica, che regola i gesti (entro i limiti dei nostri arti); che piuttosto una certa «sapienza d’anima» che vuol dare risalto alle proprie forme del nostro corpo.
E mi chiedo come una guancia dolce e morbida possa essere per noi che la guardiamo due volte più bella di com’è per qualcuno, soltanto quando la persona che la porta si apre verso di noi con dei gesti gentili e accoglienti. Mi fa pensare se è la bella forma a farci innamorare o l’amore a venir creare la dolcezza della forma in noi.
Perché la forma in sé rimane muta, solo l’attuarsi dei gesti la collega agli avvenimenti del nostro passato: ci permette, come direbbe Proust, una «comunicazione col cuore». Una via indiretta allora, a una cosa nascosta e invisibile, cui di solito solo nel profumo1 troviamo l’accesso immediato e senza preamboli.
[citare Marcel Proust: p. 136, «La strada di Swann»]
[1‘odore’ oppure: ‘sul terreno dell’odore’]Così si potrebbe dire che la bellezza non foss’altro che un rimando, un ri–a–ccordo al passato e soprattutto alla nostra giovinezza. E se ci sono tanti simboli per la bellezza è chiaro che la bellezza stessa è un simbolo alla fine: un simbolo delle esperienze avvenute, delle cose viste, sentite: la vita.