Sorrideva tra sé e sé, quel tipo di sorriso che viene da un certo imbarazzo d’accorgersi d’essere guardata, ma con ammirazione; così era ovvio che aveva capito quanto ne fossi stato colpito dalla sua bellezza. E ad ogni mio sguardo (voluto nascosto in un misto di rispetto e semplice curiosità) vi si aggiungeva qualche nuovo dettaglio che sensibilmente aumentava il mio dolore per non poterla godere nella sua nudità completa questa manifestazione della natura non infranto da nessun carattere; fuorché una più dolce gentilezza con la quale accoglieva i miei sguardi, giacché sembrava intuisse che vi fosse nella stessa misura della sua stessa bellezza tanto quanto della mia idea che me ne facevo, quindi la parte che prendevo io in quell’adorazione, capace di trasmutare anche l’oggetto stesso di quella passione, valeva a dire ella medesima. (Tutto questo lei intendeva benissimo a causa del suo istinto, senza trarne per sé da questa sapienza alcun merito personale – «qu’elle adorable!»)
E nei suoi sguardi (che indovinavo sarebbero stati carezzevoli se solo avessero trovato un loro bersaglio siccome mai si dirigevano direttamente verso di me) c’era altrettanto compiacimento che immancabilmente si desta in una persona rendendosi conto d’essere adorata, [che] di uno sfavillo dell’istinto materno, che, poiché io ne avevo parecchi anni più di lei, pareva rivolgersi esclusivamente all’attutire [acquetare], al quasi coccolare la mia sensazione di soffrire: sofferenza a cui la lieve ebrezza che si istallava tra di noi ella ben sapeva era solo uno stadio preludiante per me, come fosse questo sentimento preso via dalla sua presenza [bellezza] una cosa astratta e di cui sentiva un bisogno, a prescindere dalla persona a lei ignota in cui s’accresceva (cioè da me), e di più da essa quasi scioltasi, di prendersene cura.1
Cui ritratti riecheggiavano innegabilmente in una o due ciocche dei suoi capelli staccatesi dalle ondulazioni, e che affiancavano un viso raggiante, per di più apparsomi in una prospettiva frontale, appiattita, quasi senza alcuna profondità.
Passavano dei giorni in cui stavo pensando a quella splendida fanciulla, senza trovare le parole adatte che avrebbero potuto rendere giustizia alla sua grazia, persino inegualiata dalla 2 credevo allora, né alcun altro modo di esprimere una tale bellezza limpida e pura. Finché ne trovavo un certo sollievo mentre stavo visitando una chiesa (la stessa chiesa dinanzi la quale sarei dovuto stare non molte settimane dopo, in seguito al aver saputo che la donna da me molto amata mi avrebbe lasciata per sempre per un altro); nell’ispirazione che mi davano i pilastri3 enormi di quella cattedrale, resi quasi vitrei dalla luce che ne sublimava la massicità infiltrandosi nella loro struttura sfaccettata, e chi mi rievocavano quella sensazione che avevo avuto osservando il suo corpo dalla struttura imponente, da quelle cosce sostanziose, da quelle parti inferiori delle gambe larghe che così ammirevolmente si avevano erette lungo la sedia su cui era stata seduta; e il quale tutto felicemente si aveva concluso in lei in una testa larga, quasi indiana, regnata da occhi verdi cristallino, vispi, trasparenti.
Quel sollevamento concessomi, d’altronde, era venuto del tutto inaspettato. Perché, infine, è anche da qui che un sollievo prende il suo nutrimento perché basti una scintilla, un nonnulla a fuor alzare i nostri sentimenti da una strada a senso unico, e, in gran parte, la consolazione stessa consiste così nel farsi avanti spontaneamente dello sapere (prima celato a noi: altrimenti il dolore non esisterebbe) che non ci sia sensazione a cui non ci sia un rimedio prima o poi; o almeno che non ci sia dolore che non verrà rimpiazzato da un altro, o nessun oggetto d’ammirazione non da un altro e così via. In tal modo allora, il dolore, consistendo nel non poter afferrare gli elementi d’una bellezza come era la sua, l’ansia di vederli disperdersi come dei frammenti irritrovabili, si placava.
Infatti, forse è questa possibilità del cambiamento dell’«oggetto»4 su cui la nostra passione si dirige, l’unica vera fonte di salvezza, l’unico rimedio di cui possano servirsi in tempo le nostre emozioni feriti, per esempio, da un amore negato o deluso. Persino quando vedessimo un altra donna che in circostanze normali non c’avrebbe suscitato nessun interesse, tanto per la sua mera esistenza, che a noi si rivela forse soltanto in un orecchio ben disegnato o un collo innest[at]o in modo armonioso alla soffice capigliatura bionda, ci ridarebbe la forza di passare un brutto momento. Così la bellezza, in questi casi ben lungi dal creare l’amore, può essere una consolazione, arrecarci un conforto.
1 – Del resto, credo che pure l’amore materno come ce lo fa vedere un
sia una cosa alquanto meno strettamente diretto al suo palese oggetto, cioè un bambino, benché anche un’espressione, un rispecchio, quasi voglio dire un frutto di una passione più generale.2 – Cui ritratti riecheggiavano innegabilmente in una o due ciocche dei suoi capelli staccatesi dalle ondulazioni, e che affiancavano un viso raggiante, per di più apparsomi in una prospettiva frontale, appiattita, quasi senza alcuna profondità.
D’altronde, credo che sia questo il più grande merito di
che la bellezza delle sue madonne irradia un senso di consolazione. [Mi davano conforto quelle facce non ancora rivolte verso di me]3 – Und nicht zuletzt deswegen erschien mir jene Größe und Erhabenheit der Pfeiler tröstlich: nicht allein wegen ihrer formalen Ähnlichkeit zur empfundenen Größe des Körpers des Mädchens und ihrer aufrechten Klarheit, sondern wegen der Nähe, die sie mich empfinden ließen zu ihrem Architekten, der, genau wie ich, im Grunde einer sich nicht erfüllenden Liebe Ausdruck zu geben suchte. Das, was er zu schaffen im Stande war, kühlte unserer beider Leidenschaft auf eine geistige Weise.
4 – Qui s’esclude, però, l’amore materno perché è l’unico al cui è negato cambiare l’«oggetto», ovviamente.