Quando un ritratto oppure il disegno di una lettera in noi, prima di evocare la sensazione di essere una proiezione di cose e strutture, corpi, linee, spazi (in quanto loro rimangono chiaramente rintracciabili in essa), ne fanno un qualcos’altro, di diverso: ci presentano una «superficie magica».
Come in un ricordo d’una ragazza, della quale non fossimo riusciti a spiegarci il fascino, e la cui evidente bellezza non era costituita da alcun elemento rintracciabile, o per la sua relativa collocazione tra altri, come lo erano, per esempio, i capelli neri impressi sullo sfondo o le pur fini fattezze delle membra (come le mani cui dita dai lineamenti graziosi, tenendo in grembo un libro, volevano coprire o forse vivificare nel loro gioco un bacino dall’ossatura ancora fanciullesca che rendeva una leggera impressione di «piattezza», causata dalle anche troppo rientranti rispetto al suo fisico intero, e che ce ne dava un cert’effetto di bidimensionalità: forse simile al tale che sente un animale selvaggio in cattura per la sua gabbia, contro cui sbarre si vede costretto, senza esaminare lo sfondo della sua prigione, a strofinare il pelo girandovene la fronte da un lato all’altro); ma in cui tutti i pregi, e persino i difetti1 facevano posto ad una materia misteriosa, indistinta, priva di qualsiasi struttura corporea e manifestantesi solamente sulla superficie, che forse semplicemente consisteva nel portare la sua gioventù – come le fosse un effimero velo fluttuante davanti la bocca – a «fior di labbra».
So that like in a Degas pastel the structure of the surface became more important than the structure of its composite objects.
1 – In certi corpi giovini sembra che l’occhio perdoni di tutto (persino le apparenti malformità) perché sospetti che in loro la natura seguisse un suo «piano» di bellezza, qualunque ne sia l’intento, con più precisione e con una certa acutezza.