Spesso, quando tra noi e una cosa mettiamo una certa distanza, questa ne fa emergere la sua vera essenza.
La sua andatura ritmata, nella misura in cui irrimediabilmente allontanava da me la sua figura snella (non senza aver lasciato prima appena scorgere, nel varco tra le sue scarpe basse le quali evocavano in tratti un certo stile greco, essendo d’un chiaro blu marino e ornate di perle e sassi finti, e i pantaloni di una stoffa leggera, bruna chiara, quel tratto di pelle nuda sul dorso del piede che bastava a farsi immaginare quel che di lei era rimasta invisibile) s’accresceva di un’eleganza imprevista, imprevedibile e al cui centro v’era un sedere che, come a volte succede, sembrava dotato di una «fiducia in se stesso», manifestantesi soltanto nella la sua forma e la naturalezza del suo grazioso movimento: fiducia quale, del resto, la fanciulla per la sua età giovane, non poteva ancora possedere dalla vita; o forse come per quel dono universale, quella legge in alcune persone innata, che le rendono capace di vendere un abito eccessivamente costoso ad una donna della più alta società, e che invece rimarrà irraggiungibile per il loro stesso ceto.
E quel passo rapido e agile che lo movimentava, faceva ticchetare le sue due metà come fossero dei ingranaggi leggerissimi d’un «perpetuum mobile» del ’800 (cui ammirevole delicatezza agli uomini di allora, in cui ancora prevalse un certo romantico credo nelle loro capacità di inventiva sulla crudo sapere scientifico, ingannava il pensiero che, infine, ogni movimento ha il suo prezzo e c’è ne nessuno che non si ralenti prima o poi); una sopra l’altra, suscitando delle carezze nella stoffa sottile dei pantaloni, che per di più erano del tipo che offriva il vantaggio, non essendo del tutto aderenti ma neppure troppo larghi, di far rivelare non solo la forma, ma anche il moto del corpo, quale v’era sostenuto – come il contrappunto lo fa nella musica – dalla stoffa e dalle pieghe con le loro ombre e luci in un gioco vicendevole.
E questo fu, prima ancora che la giovinetta sparisse dal mio orizzonte, tristemente, ben più per me che un’osservazione marginale e interessante; si mischiava ad un acuto mio ‘antico’ dolore: come se non solo avessi perso (di vista allora in un doppio senso) il suo corpo adorabile, ma un pezzo della mia stessa giovinezza; e neppure quel vuoto lasciatone poteva essere colmato dal pensiero, che lei, forse in un altro luogo, in un’altra scena, vestita in un altro modo, non mi sarebbe parsa la stessa.
E, insomma, quel passo era l’elemento costruttivo come d’un opera d’arte lo è la combinazione di linee e assi (come i vecchi maestri usavano un raffinato intreccio di linee e figure solo per evocare, anzi, accendere nostra passione, tal era la natura dell’incrociarsi delle gambe e il sobbalzo che davano al suo torso sull’orizzonte), senza però limitarsi al suo «sujet», cioè quello di essere un movimento: era oltre che in grado di accattivare l’occhio dello spettatore, di evocare emozione e persino autoriflessione.